La nuova legge sull'affido condiviso - (Avv. Marcello Bergonzi Perrone)
La nuova legge sull'affido condiviso Articolo di Marcello Bergonzi Perrone (email marcello.perrone@libero.it ) 10.06.2006 (da www.altalex.com)
1.1 - La nuova legge sull'affido condiviso e la sua immediata applicabilità
Come è noto, con la Legge 08/02/2006 n. 54, entrata in vigore il 16 marzo 2006, il legislatore ha inteso rimodellare la disciplina dell'affidamento dei figli in materia di separazione.
Il tenore delle modifiche introdotte è stato fin da subito inteso come di immediata applicabilità da parte dei primi commentatori ,
Per quel che attiene alle norme di carattere processuale, tale immediata operatività discende, ovviamente, dal sistema processualcivilistico (ed ugualmente processualpenalistico), che vuole – in assenza di norme transitorie, come nel caso di specie – che le modifiche al rito trovino subitanea applicazione, laddove naturalmente ciò sia possibile, e con salvezza del pregresso.
Per quanto attiene, invece, alle disposizioni di diritto sostanziale, ebbene, tale immediatezza deriva dal carattere di intrinseca indisponibilità e temporaneità dei diritti che esse norme regolano, e dalle tutele in esse rappresentate. Ciò si rende chiaro e manifesto da una semplice considerazione. Le disposizioni in materia di affidamento sono (così come lo erano in passato) sempre suscettibili di modifica, laddove intervengano dei mutamenti (sia in fatto, sia in diritto) nelle situazioni già disciplinate. Ora, negare la immediata operatività della Legge in commento, significherebbe impedire inutilmente la applicazione di tali norme nel procedimento in corso, dal momento che esse verrebbero ad essere applicate subito dopo, in un procedimento apposito e successivo, una volta esaurito quello in essere. Il che è intrinsecamente illogico.
Ma è comunque l'art. 4 della L. n. 54/2006, al comma 2, che nelle sue “disposizioni finali” (id est: transitorie) lascia chiaramente intendere che la normativa vada applicata anche ai procedimenti pendenti, dal momento che ricomprende tutte le ipotesi (scioglimento e cessazione del matrimonio, genitori non coniugati) in cui vi sia presenza di prole minore.
Ciò posto, non pare necessario procedere oltre nell'argomentare a favore della tesi che vuole la immediata operatività di tutti i precetti introdotti con la nuova legge sull'affido condiviso (non essendo questa la sede per un ulteriore sviluppo dell'argomento in forma di trattato), giacché pare che le poche affermazioni sopra esposte siano più che sufficienti a dirimere ogni dubbio in proposito [3].
1.2 – Gli artt. 155 e 155-bis c.c. novellati, e l'affido congiunto come regola generale nel ménage del rapporto genitoriale.
Risolto positivamente il “nodo” se la nuova disciplina debba trovare ingresso anche nel presente processo, va ora osservato in che modo le nuove norme influiscono nei rapporti tra gli attuali coniugi e i loro due figli.
Il nuovo art. 155 c.c. “apre” cambiando radicalmente la vecchia prospettiva.
Laddove la superata disposizione affermava che “Il Giudice che pronuncia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati ... omissis”, ora il nuovo art. 155 c.c. cancella quell'incipit, e stabilisce che “omissis ... il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura , educazione e istruzione da entrambi... omissis”.
Nei commi successivi, la legge meglio chiarisce come tale “rapporto equilibrato e continuativo” debba concretizzarsi, stabilendo al comma II che il Giudice deve valutare “prioritariamente” (id est., letteralmente: “prima di ogni altra cosa”) la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori.
E' ben vero che il periodo successivo del II comma dell'art. de quo prevede anche la possibilità che il Giudice affidi i figli ad uno solo dei genitori. Tuttavia, la assoluta eccezionalità di tale ipotesi risulta manifesta dal successivo art. 155-bis c.c., introdotto dalla legge di riforma. L'art. 155-bis, infatti, chiarisce in quali, precisi ed esclusivi casi il Giudice possa affidare i figli ad uno solo dei genitori, e cioè: “... quando ritenga con provvedimento motivato che l'affido all'altro (coniuge) sia contrario all'interesse del minore.”.
Orbene, va ora interpretata la portata del combinato di questa disposizione, con quella di cui al 1° periodo del cpv. dell'art. 155 (nuova versione), che impone quale precipuo parametro di riferimento (solo) l'interesse morale e materiale della prole.
Da un lato, insomma, il legislatore richiama l'attenzione dell'interprete sul fatto che il faro che deve illuminare il suo percorso decisionale è rappresentato dall' “interesse morale e materiale della prole”. Ma subito dopo, fa entrare in campo le figure genitoriali, ed ammonisce (rectius: sancisce) che per un affido esclusivo, è necessario un vulnus alla prole, e che tale danno deve essere rappresentato dal solo e semplice fatto che affidare il figlio ANCHE all'altro coniuge sia “contrario all'interesse (ndr: morale e materiale, evidentemente) del minore”. Non solo.
L'ingresso dei diritti dei genitori a non essere meri spettatori o parti passive nei rapporti con i figli, è rivalutato (si potrebbe dire: riscoperto) con la previsione della necessità che il Giudice “prenda atto, se non contrari agli interessi dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”, e ancora di più dalla affermazione di principio che “la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori”, e ancora, da ultimo, che gli stessi genitori possano accordarsi per iscritto circa il mantenimento dei figli.
Ora, tale groviglio di disposizioni necessita obiettivamente di una sintesi, che deve tradursi in un opportuno e doveroso contemperamento delle esigenze e dei diritti di tutti i soggetti interessati (genitori e figli), in modo tale da consentire la salvaguardia degli ultimi (i diritti) e la effettiva tutela delle prime (le esigenze).
Ebbene, tale contemperamento si potrà avere solo tramite una verifica del rapporto genitore/figlio.
Affidare la prole a un solo genitore, rappresenta di per sé una compromissione del diritto del non affidatario, che vede limitato l'esercizio della sua potestà genitoriale. Ciò è in re ipsa, dal momento che colui che si vede negato l'affido del figlio, vede limitato il suo diritto di... fare il genitore (!), non potendo esercitare pienamente la sua potestà, che viene inevitabilmente compressa. Per converso, l'altra parte, l'affidataria, vede estesa (a scapito della prima) la propria potestà. Ciò, si ripete, è assiomatico.
Ma allora, quando sarà giusto comprimere (da un lato) ed estendere (dall'altro lato) questi diritti – potestà genitoriali? Quali, insomma, i parametri da seguire, in base alle indicazioni del legislatore?
Certamente il parametro di riferimento non potrà essere il confronto e la valutazione del rapporto (della conflittualità?) tra i due genitori, se non inserito nel contesto filiale. Ciò è evidente. Il conflitto tra i genitori / coniugi è (ahimé, sempre più spesso) l'epilogo naturale (ad un tempo, causa ed effetto) della loro separazione, e coinvolge inevitabilmente reciproche pretese e rivendicazioni che investono inderogabilmente anche i loro rapporti con la prole. Porre, insomma, quale parametro per l'affidamento dei minori la conflittualità dei loro genitori, è intrinsecamente errato, e potrebbe portare anche a delle conseguenze aberranti (specie nell'ottica della nuova legge, che vedrebbe non rispettati il suo dettato e la sua ratio). Basti pensare, infatti che, se così fosse, un coniuge potrebbe maliziosamente inasprire i rapporti con l'altro, con la finalità di vedersi affidato a sé solo il figlio minore, per compromettere ritorsivamente la potestà genitoriale dell'altro, facendo su questo leva per vedere soddisfatto altro un genere di rivendicazioni. Con il risultato di un ascendente che, sottoposto al “ricatto morale” di dover passare attraverso le concessioni dell'affidatario per poter aspirare ad ottenere una sua maggiore presenza nella vita dei figli, inevitabilmente coverebbe e vedrebbe alimentato un maggiore rancore verso l'altro genitore, con un altrettanto inevitabile riverbero negativo verso i figli, ultimi destinatari dell'astio dei due.
Impostare, insomma, la ricerca di quale sia il bene dei figli, basandosi sulla valutazione della conflittualità dei loro genitori è da un lato errato, dall'altro fuorviante e, in taluni casi, controproducente, oltre che contrario all'interesse dei minori e, in ogni caso, avverso allo spirito della L. 54/2006 e alla sua ratio.
1.3 - I nuovi criteri di valutazione per l'affidamento dei figli.
Sgombrato, quindi, il campo dalla opportunità e validità dell'utilizzo del conflitto dei coniugi come criterio di valutazione per l'affido dei figli, vanno quindi individuati i parametri che sono invece da tenere in considerazione per la disciplina dei loro rapporti con i rispettivi genitori.
In proposito, vanno richiamate le norme e le considerazioni poc'anzi supra svolte, sempre tenendo a mente che la legge prevede l'affido congiunto quale regola, e quello esclusivo quale eccezione. Acclarato il disfavore della novella per l'assegnazione esclusiva, si osserva come l'unico elemento che può indurre all'affido “unilaterale” possa e debba riferirsi esclusivamente all'eventuale pregiudizio che i figli subirebbero da un affido condiviso. Ma ciò si risolve ancora una volta nella risposta ad un semplice quesito: se l'affidamento del minore ad uno dei due genitori può rappresentare per il minore stesso un pregiudizio. La domanda, insomma, investe il rapporto diretto, singolo e individuale tra genitore e figlio. Se l'affidamento del minore a quel genitore (e solo con riferimento a quel genitore) determina un pregiudizio a suo carico, allora, e solo in quel caso, il Giudice dovrà declinare per un affido esclusivo ad uno dei coniugi. Diversamente, la strada obbligata sarà quella di un affido congiunto, seppur opportunamente regolato e disciplinato, per far sì che i conflitti infragenitoriali non possano influire negativamente sulla prole.
E si badi: non vi dovrà essere una valutazione dell'eventuale pregiudizio (in astratto) del minore in rapporto all'affido condiviso, e cioè relativamente al rapporto del minore con entrambi i genitori, ovvero alla astratta previsione che l'affido sia dato ad entrambi. Ma il rapporto da prendere in considerazione dovrà e potrà essere solo quello diretto genitore/figlio, e solo qualora questo rapporto diretto rechi pregiudizio al minore, solo in tal caso, si dovrà negare l'affido (anche) a quel genitore, comprimendogli il suo diritto/dovere/potestà, in favore dell'altro. Se così non fosse, infatti, da un lato si ricadrebbe nell'errore sopra rilevato (e cioè: la ricerca di quale sia il bene dei figli, valutando la conflittualità dei loro genitori), dall'altro non si capirebbe la portata della analitica descrizione e disciplina e regolamentazione dei rapporti genitori / figli che il Giudice è tenuto a fare.
Il Giudice, infatti, nel suo provvedimento di affidamento, deve anche disciplinare analiticamente la vita quotidiana del minore, come meglio ci si accinge a dire. E' evidente che in tanto ha senso tale previsione, in quanto essa serva ad impedire che l'affido condiviso tout court possa comportare quel pregiudizio che invece la legge vuole impedire. In altre parole, acclarato come inevitabile l'affido condiviso (in quanto il rapporto diretto, genitore / figlio non è di pregiudizio per il minore) quest'ultimo non potrà in nessun caso rappresentare un pregiudizio per il minore, e ciò non solo perché è la legge stessa che dice che l'affidamento congiunto è un bene per il figlio, e rappresenta cioè un valore intrinseco, sotteso al mantenimento del contatto primario del minore con il genitore. Ma anche perché, dal lato pratico, ogni eventuale pregiudizio può essere eliminato dal sapiente intervento del Giudice nel disciplinare il ménage familiare, tramite il contenuto dettagliato del suo provvedimento.
Quanto più sarà equa, ponderata ed attenta la regolamentazione dei rapporti, tanto più l'ipotetico, eventuale pregiudizio, verrà vanificato ab imis, in radice da parte del Giudice.
1.4 – Il contenuto del provvedimento del Giudice.
L'art. 155, comma II c.c., disciplina il contenuto del provvedimento giudiziale, certamente più “invasivo” e dettagliato rispetto al passato. Il Giudice infatti dovrà: a) “determinare i tempi e le modalità della loro (dei figli, ndr) presenza presso ciascun genitore”; b) fissare la “misura e il modo” con cui entrambi i genitori dovranno contribuire non solo dal punto di vista economico, ma anche fattuale, in concreto, con il loro apporto/presenza fisica e supporto morale al “mantenimento, alla cura all'istruzione e all'educazione dei figli”; c) prendere atto (dandone ovviamente cenno e riscontro nel suo provvedimento) degli accordi intervenuti tra i genitori; d) adottare ogni altro provvedimento inerente alla prova.
Quest'ultima disposizione è certamente quella di più facile interpretazione, quand'anche di più difficile applicazione pratica per l'operatore (nonché fonte di preoccupazione e responsabilità), giacché rappresenta una norma di chiusura, volta a “tamponare” le inevitabili lacune che la legge non può colmare in relazione alla pluralità e imprevedibilità delle fattispecie concrete da regolare. Certo è che il legislatore non poteva e non può prevedere una standardizzazione delle regolamentazioni che possano attagliarsi a tutti i casi concreti. Meglio, insomma, lasciare che sia il Giudice, in presenza delle particolarità che gli si presentano, a svolgere quei correttivi impartendo quelle istruzioni che possano preservare “l'interesse morale e materiale dei figli”. Norma, quindi, volutamente generica, stante la genericità dei casi concreti che solo l'operatore giuridico sarà in grado di disciplinare.
Merita, invece, un maggiore sforzo interpretativo la prima delle lettere in elenco. Ora, se è vero che “la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori”; se è vero che i figli “restino affidati a entrambi i genitori”; se è vero che le decisioni sulle questioni di straordinaria e di ordinaria amministrazione vengano di regola esercitate sempre da entrambi, ciò significa che i figli dovranno in linea di principio “permanere” (id est: vivere) con entrambi i genitori, paritariamente.
Tale volontà viene confermata anche dai nn. 3 e 4, del comma IV dell'art. 155 c.c. La norma dispone che il Giudice, nello stabilire, “ove necessario, la corresponsione di un assegno economico” deve considerare “i tempi di permanenza presso ciascun genitore” nonché “la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”. Se, quindi, vanno calcolati i “tempi di permanenza” e i “compiti domestici e di cura” di entrambi i genitori, va da sé che i figli con questi genitori ci debbano pure stare, permanere e... convivere. Resta da stabilire in che misura.
Ancora una volta, una attenta lettura del dato normativo aiuta l'interprete. L'assegno periodico accennato dalla normativa, andrà imposto solo “ove necessario”. Lo dice espressamente l'art 155 c.c. Ma se l'assegno ha il carattere di sussidiarietà, e cioè va corrisposto solo se se ne veda la necessità riequilibratrice (in considerazione dei parametri di cui ai nn. 1/5 elencati dall'art. 155 c.c., e con provvedimento congruamente motivato), ciò significa che la sua mancata previsione sarà effetto naturale di una presenza / convivenza paritaria della prole con entrambi i genitori. In altre parole: la legge prevede come ipotesi normale che i figli spendano il proprio tempo e convivano con entrambi i genitori in eguale misura. Metà del tempo con l'uno, e metà del tempo con l'altro. E ciò è dimostrato dal fatto che non si prevede (come nel passato) de plano che il coniuge non affidatario contribuisca economicamente al mantenimento dei figli, ma che detto assegno sia solo eventuale, ed avente funzione riequilibratrice.
Tale previsione viene ancora confermata dall'art. 155-quater c.c. in tema di assegnazione della casa familiare. Se, infatti, il coniuge assegnatario dovesse abbandonare la casa assegnatagli, ecco che i provvedimenti riguardo (anche) i tempi di permanenza della prole andranno “ridefiniti”.
Si rende pertanto esplicita e manifesta la ratio di tutte le disposizioni sopra richiamate. Il principio generale ricavabile è che, in tema di affido condiviso, i figli debbano prioritariamente vivere e passare uguale tempo con i singoli e rispettivi genitori, e solo laddove ciò sia materialmente impossibile, ecco entrare in campo la norma sussidiaria e di chiusura di cui all'art. 155, II comma, ult. periodo, c.c., con l'adozione da parte del Giudice di “ogni altro provvedimento relativo alla prole” che disciplini altrimenti questa delicata materia.
1.5 – La sintesi della disciplina in relazione alle disposizioni del singolo caso di specie.
Alla luce di quanto sopra, risulta più agevole esplicitare quale debba essere il contenuto delle disposizioni giudiziali che devono regolamentare il singolo caso di specie.
Nella loro redazione (partendo dalla enunciazione di principio / regola generale dell'affidamento congiunto ad entrambi i coniugi) si dovranno disciplinare paritariamente i tempi di permanenza della prole con ciascuno dei due genitori, con un calcolo temporale settimanale, feriale e festivo, egualitario per entrambe le parti coinvolte.
Andranno regolamentati la “misura e il modo” con cui entrambi i genitori dovranno contribuire al “mantenimento, alla cura all'istruzione e all'educazione dei figli” e, infine, disciplinare l'aspetto relativo alle decisioni circa “la cura, l'istruzione ed educazione dei figli”, sia per l'ordinaria, sia per la straordinaria amministrazione.
Tutto ciò, si ripete, laddove possibile, in modo perfettamente paritario, come voluto dallo spirito della legge, e nella più totale assenza di ogni volontà prevaricatrice. E sarà proprio questa ispirazione paritaria, egualitaria, che meglio servirà ad eliminare in radice, per il futuro, le ipotesi di ulteriore conflitto tra le parti che, invece, diversamente, saranno altamente probabili, a discapito ancora una volta degli interessati più deboli: i minori.
Una diversa regolamentazione, non paritaria, dei rapporti genitoriali nel potrebbe determinare, in caso di mancato, o ritardato, pagamento dell'eventuale assegno da una delle due parti avrebbe come immediata conseguenza l'inizio di nove cause, civili e penali, e un moltiplicarsi di udienze, precetti, carte bollate e ... rancore. Un diversa disciplina dei tempi di permanenza finirebbe per fare dei figli un interminabile oggetto del contendere, con una continua rivendicazione del diritto, vissuto come negato, di una maggiore loro presenza nella vita di entrambi. Senza contare la impossibilità di realizzare concordemente degli “scambi” di turno, in caso di necessità (e a discapito sempre della prole...), e comunque con la certezza di un riverbero negativo della incrementata conflittualità dei genitori sui figli. L'unica soluzione (a parere dello scrivente) coerente con lo spirito della legge, è rappresentata dall'accoglimento delle conclusioni di seguito rassegnate, che contemperano il più dettagliatamente possibile le esigenze di tutti, in modo paritario equo e... giusto. Vero è che la comune esperienza di tutti gli operatori giuridici in subiecta materia, insegna che, nella maggior parte dei casi, i figli soffrono per la disunione dei loro genitori, al punto che tale circostanza è considerata “normale”, e come tale accettata in quanto “naturale”, una spiacevole ma inevitabile conseguenza della libertà dei coniugi di potere addivenire allo scioglimento civile del loro vincolo[19]. Ma qualora non si sia in presenza di una coppia “diseguale” quanto a impegni. e a “valenza dei compiti domestici e di cura”, come dice la legge, ebbene, non si vede perché non vi debba essere una uguaglianza (sempre come la legge prescrive) anche nei tempi di assegnazione dei figli ad entrambi i genitori. E, infine, non v'è chi non veda come una ipotetica e denegata improvvisa diminuzione dei tempi di presenza di uno dei due genitori (di solito, del padre), potrebbe venire vissuta negativamente dai figli, che sì in questo caso potrebbero subire un “pregiudizio” paventato ed osteggiato dalla legge di riforma.
La introduzione di nuove richieste istruttorie per i procedimenti in corso.
Fermo quanto sopra, pare evidente che la presentazione di nuovi mezzi di prova è conseguenziale e plausibile, a seguito della intervenuta novella legislativa.
Ciò è dovuto (e doveroso) in quanto le nuove disposizioni regolamentano la materia in modo totalmente difforme rispetto al passato, sia per quanto riguarda (eventualmente) quella indagine sul “pregiudizio” che il Giudice deve comunque compiere (e motivare), anche in merito alla sua assenza, nel decidere in ordine all'affidamento congiunto/esclusivo. Sia perché la L. n. 54/2006 impone che anche gli “ascendenti” (e cioé: i nonni) e i “parenti di ciascun ramo genitoriale” conservino rapporti significativi con i minori (art. 155, I comma c.c.). Sia perché l'insieme delle disposizioni che il Giudice è chiamato a determinare non può essere emanato senza un supporto e un quadro probatorio valido, che gli consenta di esplicare e giustificare nella sua motivazione le statuizioni prese.
Ecco perché in sede di precisazione delle conclusioni dovrà venire rinnovata la richiesta di nuove istanze istruttorie, e che potrà avvenire solo a seguito di una apposita memoria che riassuma (in modo non generico) le domande in tal senso rivolte e i fatti di cui si domanderà di poter offrire dimostrazione.
Solo così si potranno infatti acquisire gli elementi che potranno portare a una serena decisione giudiziale in ordine all'affidamento dei figli, avendo il Giudicante a disposizione tutti gli estremi che dovranno venire menzionati nelle sue motivazioni, per portare a una efficace regolamentazione dei rapporti genitoriali con riguardo alla prole minore.
Avv. Marcello Bergonzi Perrone
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