Diritto di critica ai provvedimenti giudiziari
sentenza n.2923212004
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
SENTENZA
La Corte osserva:
Sulla base dei documenti conoscibili da questa Corte i fatti possono essere così riassunti: F. M. era un avvocato che difendeva tale M. imputato di rapina e sottoposto per tale fatto alla misura cautelare della custodia in carcere.
Una collaboratrice dello studio M., tale avvocato (...), contatto telefonicamente il sostituto procuratore presso il Tribunale di Fermo dottor G. C. per sondare la disponibilità del Pm ad esprimere un parere favorevole alla liberazione del M..
Secondo la tesi dell'imputato, riferita dalla motivazione della sentenza impugnata, il dottor C. rispose alla (...) "se fosse per me butterei al mare la chiave della cella del M.".
Per reagire a tale frase l'avvocato M. invio al C. una lettera "ironica" nella quale, dopo avere "elogiato" il tono "pacato e lieve" della risposta e sottolineato "il senso di moderazione", affermava che per terminologie come queste un giorno " (...) alla Previti" potrebbero prevalere su "giudici onesti".
Il M. concludeva lo scritto dicendo di non potere esprimere nessun senso di stima nei confronti del C..
Per tali frasi, ritenute offensive, il M. veniva condannato dal Giudice di pace di L'Aquila alla pena di euro 500,00 di multa oltre al risarcimento dei danni alla costituita parte civile nella misura di euro 3.000,00.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione F. M. che deduceva la nullità della sentenza impugnata per mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità e in ordine al dedotto diritto di critica nonché la mancanza di motivazione relativamente alle statuizioni civili.
I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da M. F. sono fondati
I magistrati italiani godono di piena indipendenza di giudizio e l'ordine giudiziario ha un rilevante tasso di effettiva autonomia.
Ciò comporta, tra l'altro, che per le valutazioni operate nei provvedimenti giudiziari assunti i magistrati non siano perseguibili né penalmente né disciplinarmente, né responsabili civilmente, a meno che dette valutazioni non siano frutto di palese negligenza o di dolo.
Il contrappeso all'elevato grado di indipendenza e di autonomia della magistratura non può che essere rinvenuto, come autorevoli Autori hanno posto ripetutamente in evidenza, in una ampia possibilità di critica dei provvedimenti giudiziari che deve essere riconosciuta a tutti i cittadini e non soltanto ai cosiddetti “addetti ai lavori”.
Infatti, se è vero che i provvedimenti giudiziari ritenuti errati possono essere modificati soltanto con il rimedio delle impugnazioni, è pure vero che essi possono essere ampiamente criticati, come dimostrano le numerose e severe critiche ai provvedimenti giudiziari che quotidianamente possono essere lette non solo su riviste specializzate, ma anche su quotidiani.
La legittima critica dei cittadini non deve limitarsi soltanto alle decisioni assunte ed alle motivazioni che le sorreggono, ma può investire anche i comportamenti assunti nell’esercizio della funzione giudiziaria.
Comportamenti che, come è noto, debbono essere improntati non solo ad imparzialità, ma anche ad equilibrio e sobrietà.
Sovente, infatti, alcuni comportamenti "arroganti" assunti nei confronti di avvocati, imputati e parti processuali appaiono addirittura meno tollerabili di motivate decisioni contrarie agli interessi di una parte.
Ed è giusto che sia così perché in un Paese democratico chi esercita la delicata funzione giudiziaria che produce rilevanti effetti sulla vita dei consociati astenersi dall'assumere atteggiamenti che possano essere interpretati come improntati a pregiudizi.
Del resto che sia legittima la critica non solo dei provvedimenti giudiziari, ma anche dei comportamenti dei magistrati è dimostrato dal fatto che sia avvocati che parti possono presentare esposti al Consiglio superiore della magistratura, che, come è noto è il custode della deontologia del magistrato.
Infine in linea generale deve rilevarsi che in un ordinamento democratico, come è il nostro, ampio spazio deve essere riconosciuto alla libertà di espressione dei cittadini ed al diritto di critica sui provvedimenti e sui comportamenti assunti dalle persone che esercitano rilevanti poteri pubblici; la critica e le conseguenti discussioni contribuiscono, infatti, alla crescita della sensibilità collettiva su questioni rilevanti ed “aiutano” chi esercita un pubblico potere a correggersi.
Naturalmente l'ampia portata del diritto di critica deve. essere ancorato ad alcuni precisi presupposti.
È. Infatti, necessario che il fatto attribuito ad un determinato soggetto e sottoposto a critica sia vero; non è cioè possibile consentire che si attribuisca un comportamento inventato ad un determinato soggetto pubblico per poi criticarlo.
È poi indispensabile che il linguaggio usato per criticare sia corretto; la critica può anche essere severa ed aspra, ma il requisito della “continenza” deve essere rispettato.
E’ vero che oggi si è spesso sottoposti ad inaccettabili linguaggi usati anche da personaggi molto in vista anche nel corso di trasmissioni televisive, ma si tratta di un malcostume che deve essere contenuto per la salvaguardia di corretti rapporti tra i consociati che debbono essere improntati ad un minimo di rispetto e di civiltà, requisiti ai quali non è possibile rinunciare.
Si dimentica troppo spesso, infatti, che la violenza verbale, ingiustamente tollerata proprio in nome della libertà di espressione e di critica, è talvolta, anche più dannosa della violenza fisica.
La critica di un fatto o di uno specifico comportamento di un uomo pubblico, inoltre, non può costituire l'occasione per un attacco personale, ovvero la critica non può consistere, come si suole dire, in argumenta ad hominem.
Sulla base di tali generali osservazioni ed esaminato l'articolato capo di imputazione si deve concludere che nel caso di specie vi è stato un corretto esercizio del diritto di critica.
Va anzi detto che addirittura vi era più di un elemento per dubitare fortemente della valenza offensiva della lettera spedita dal M. al C..
Su entrambi gli aspetti indicati in effetti sfugge quale sia stata la valutazione di merito del giudice di primo grado perché la motivazione della decisione impugnata è del tutto carente.
Ebbene la prima parte della missiva non può dirsi offensiva e, quindi, il discorso sulla esimente è ultroneo: il mittente, invero, con tono chiaramente ironico, mostrava un finto apprezzamento per il tono pacato e lieve delle parole usate e per il senso di moderazione espresso.
Il riferimento è ovviamente all'antefatto di cui si è già parlato, ovvero alla frase indirizzata all'avvocato (...); sul punto il primo giudice nulla ha detto, ma nella narrazione del fatto compiuta nella prima parte della sentenza impugnata ha riportato l'episodio della telefonata tra la (...) ed il C., episodio peraltro non smentito dalla querela proposta dalla parte offesa.
La seconda parte della lettera contiene le severe critiche; una generale, perché secondo l'imputato proprio comportamenti come quello tenuto dal C. potrebbero consentire "ai Previti" di prevalere, ed una più specifica, non avendo voluto esprimere il M. "sensi di stima al C.".
L'accostamento della figura di un magistrato a quella di un imputato può ritenersi certamente offensiva; fare dipendere soluzioni istituzionali discutibili o addirittura esiti processuali indesiderati da comportamenti ritenuti errati di singoli magistrati è, oltre che errato, mortificante per il destinatario della missiva.
Una manifestazione di disistima è certamente offensiva, anche se non è "obbligatorio" stimare una persona.
Può comunque riconoscersi una certa portata offensiva della seconda parte della lettera incriminata.
Ha ragione il Procuratore generale quando osserva che nei fatti potrebbe essere ravvisabile l'esimente speciale di cui all'articolo 599 comma secondo c.p., perché la lettera potrebbe essere ritenuta una legittima reazione al fatto ingiusto commesso dal C., ovvero dalla frase provocatoria pronunciata all'indirizzo della (,..).
Sul punto non vi è stata nessuna motivazione del giudice di merito e ciò ha legittimato la richiesta di annullamento con rinvio del PG.
Tuttavia il processo può essere risolto in sede di legittimità tenuto conto di tutto quanto detto in precedenza, nel caso di specie ricorre la esimente generale dell'esercizio del diritto di critica dall’articolo 51 c.p..
In primo luogo l’esercizio di tale diritto deve essere certamente riconosciuto ai cittadini in un caso come quello raccontato, perché il comportamento censurato era stato assunto da un magistrato competente ad adottare provvedimenti sul bene più prezioso dei cittadini, dopo la vita, che è la libertà; ebbene in siffatte situazioni è necessario rispetto anche per chi ha sbagliato ed appare meritevole di sanzione ed equilibrio.
Criticare comportamenti di magistrati ritenuti arroganti e non deontologicamente corretti è certamente possibile.
Inoltre il fatto che ha dato origine alla severa critica può ritenersi vero perché non è stato smentito da nessun elemento processuale; è stato infatti riportato nella motivazione della sentenza impugnata senza parole di dubbio in ordine al suo essersi verificato.
La critica al comportamento ed alle parole del magistrato è stata espressa in termini del tutto corretti e civili e perciò non sembra siano stati superati i limiti della continenza.
L'imputato non ha attaccato in generale la persona e la figura del giudice, ma ha censurato, con ironia e pacatezza, un solo comportamento del magistrato ritenuto, secondo questo Collegio fondatamente, contrario a fondamentali regole deontologiche.
Ricorre in conclusione nel caso di specie la esimente di cui all'articolo 5l c.p. invocata dal ricorrente.
Per tutte le ragioni indicate la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato per essere l'imputato non punibile ex articolo 5lcp.. ..
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato per essere l'imputato non punibile ex articolo 5l c.p..
Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2004
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Codice penale
Art. 51 - Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere
L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità.
Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo.
Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine.